Teatro

La differenza che pesa sulla vita

La differenza che pesa sulla vita

L’individuo che diserta i canoni della conformità diventa suo malgrado permeabile alle pressioni normalizzanti del suo gruppo sociale. Non tanto a quelle che si esplicitano nel conflitto verbale; ma a quelle, ben più inquietanti, che gridano occultamente alla coscienza con la forza dell’incubo. È un lavoro aspro e problematico questo 248 kg, con cui la compagnia siciliana di Esiba Arte conclude la sua “trilogia della sconfitta”, cominciata quattro anni fa con Cianciana, un lavoro sull’immobilità delle sorti degli ultimi, e proseguita con Anamorfosis, la perdita di senso dell’esistenza sotto l’ipnosi collettiva dei media.

In questa drammaturgia che viene oggi presentata al Napoli Fringe Festival l’obesità del protagonista diventa occasione per indagare la dolorosa sfasatura tra un individuo “anomalo” e il sistema dominante di credenze e di norme che lo tortura. L’inaccettabile condizione fisica rende Benno irriconoscibile ai suoi simili, lo pone ai margini della rispettabilità e del diritto; o almeno così raccontano le proiezioni mostruose coltivate dalla sua immaginazione. E subito lo spettatore è chiamato a condividere il giudizio di inadeguatezza del protagonista, perché non si immagini che quel che accade sulla scena sia il ritratto di una situazione marginale e distante.

Così, flagellato sin da bambino dal peso della sua differenza, Benno diventa spontaneamente vittima sacrificale, aderisce con convinzione al ruolo di capro espiatorio delle ferite del suo gruppo sociale; o almeno così immagina nella sua fantasia addomesticata di debitore, perché la realtà non emergerà mai sulla scena se non attraverso il flusso della memoria. Ma è proprio in questo punto che la scrittura drammaturgica si attenua sensibilmente: il rapporto fra Benno e i suoi ricordi – personificati nel nonno e da una bambina – non ha la stessa densità emotiva della parte iniziale, e il gioco del grottesco si alleggerisce troppo apertamente. I personaggi della memoria sono caricature deformi dell’infanzia, ma la loro espressività stereotipata rende meno singolare, meno unica, e dunque meno incarnata, la forza dell’incubo. Più conturbante la controscena della bambina disadattata che si pettina muta, mentre il nonno cerca di trasmettere la sua ferma educazione al nipote.

La drammaturgia ridiventa piena sul finale, introdotto dalla presenza muta e inerme, e tuttavia molto significante, dell’ottimo Angelo Abela, che riemerge all’angoscia della vita reale dissolvendo i personaggi della sua fantasia, fantasmi giudicanti eppure portatori di una lenizione che non appartiene più al presente. Il lavoro risulta complessivamente ritmato e di buona tenuta scenica, anche grazie alla vivacità degli interpreti: oltre al già citato Abela, bravi Marco Pisano ed Eugenio Vaccaro, guidati dalla regia di Sebastiano Di Guardo.